di Francesca Tripodi ed Emanuele D’Innella
Si è tanto parlato in questi ultimi anni (e si continua parlare) di attività di “direzione e coordinamento di società” come di una delle innovazioni più significative introdotte nel 2004 dal nostro legislatore nell’ambito della riforma del diritto societario.
Si è addirittura parlato di un legislatore “illuminato” che, per la prima volta, aveva tentato di costruire una disciplina organica intorno al tema dei gruppi d’imprese e le annose questioni ad esso connesse, che da troppo tempo riempivano le pagine di libri e riviste, in un gioco di forza tra aziendalisti e professori ed una giurisprudenza altalenante, alla ricerca di una certezza del diritto che, ancorché basata su fondamenta solide, appariva in certi momenti ancora troppo lontana da raggiungere.
Era da anni sotto gli occhi di tutti, di tutti noi che ogni giorno ci misuriamo con le realtà imprenditoriali italiane, più o meno complesse, che il nostro impianto normativo non poteva più prescindere dal riconoscimento ufficiale, giuridico ed economico, dei gruppi di impresa.
Solo una nuova normativa organica avrebbe dunque potuto risolvere quel dissidio da sempre presente nel nostro ordinamento tra “unità economica del gruppo” e “autonomia giuridica delle singole società” che lo costituivano e contemperare efficacemente le principali esigenze: aumentare il grado di trasparenza degli assetti proprietari, garantire specifiche tutele ai soci ed ai creditori delle società controllate e far prevalere l’interesse del gruppo su quello della singola società, di modo che una decisione svantaggiosa per quest’ultima potesse essere comunque legittimamente motivata da un vantaggio più generale per la stessa e per l’intero gruppo e così quindi giustificata.
È forse per questa ragione che il nuovo impianto normativo – che prevede espressamente una responsabilità della società che esercita l’attività di direzione e coordinamento (generalmente, ma non necessariamente, la capogruppo) nei confronti del socio o anche del creditore della società controllata, nell’ipotesi in cui dall’esercizio di tale attività derivi una lesione dei loro diritti in termini di redditività e valore della partecipazione sociale nonché di integrità del patrimonio della società – e con esso tutte le altre disposizioni correlate – che prevedono specifici obblighi di pubblicità della soggezione all’altrui direzione e coordinamento e di motivazione di ogni decisione sociale influenzata da questa attività nonché il diritto di recesso per quel socio che veda modificarsi le condizioni di rischio del suo investimento iniziale a causa di un cambiamento successivo dell’assetto del gruppo societario cui originariamente apparteneva – è stato accolto da subito nel 2004 da noi aziendalisti come una piccola grande rivoluzione.
Ecco dunque che il Gruppo, oltre ad essere un “fatto” aziendale, diviene con la riforma del 2004 anche una disciplina, improntata a criteri di trasparenza e pubblicità e comunque tale da garantire, grazie al riconoscimento della legittimità di una “direzione unitaria”, il contemperamento degli interessi del gruppo, delle società controllate ed anche dei soggetti deboli di queste, cioè i soci di minoranza ed i creditori.
Certo che chiunque cerchi in queste norme la definizione di “gruppo”, rischia di restare profondamente deluso; piuttosto che soffermarsi su definizioni (come tali sempre troppo strette ed incapaci di adeguarsi ai tempi), il legislatore della riforma ha piuttosto preferito intervenire direttamente sul problema centrale del “fenomeno – gruppo”, quello cioè della responsabilità della controllante nei confronti dei soci e dei creditori della controllata, individuando appunto nell’esercizio dell’attività di direzione e coordinamento la tipica manifestazione esterna dell’attuazione della politica di gruppo. Si è parlato, infatti, in questo contesto, di “statuto organizzativo delle imprese di gruppo”.
Occorre chiedersi, tuttavia, se, trascorsi ormai ben sedici anni dalla sua introduzione, questa disciplina, ancorché nel suo complesso molto apprezzabile, funzioni concretamente e quali contributi abbiano dato sinora dottrina e giurisprudenza nell’interpretazione di concetti e presupposti insiti nelle norme: ci riferiamo ad esempio, a quei “principi di corretta gestione imprenditoriale e societaria” la cui violazione cagioni una lesione del diritto del socio “all’utile ed alla valorizzazione della partecipazione sociale”; all’obbligo di pubblicità ed alla relativa responsabilità dell’organo amministrativo della società controllata; all’esercizio di attività “che alterano le condizioni di rischio dell’investimento”, tali da giustificare il recesso del socio; alla totale assenza, in questa riforma, di norme riferibili ai gruppi internazionali.
Ed è triste constatare come questa difficoltà ad interpretare univocamente alcuni istituti giuridici richiamati dalle norme in questione, rischi ancora oggi di rappresentare un pregiudizio per l’attività imprenditoriale, incidendo radicalmente sull’assetto delle responsabilità economiche e patrimoniali delle società che compongono il gruppo e così inducendo molti gruppi a dover rivalutare la propria organizzazione societaria ed operativa.
Ma indietro non si torna! Occorre necessariamente abbandonare la storica previsione contenuta nell’art. 2380 bis del codice civile, secondo cui “la gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale” ed individuare nuovi principi verso cui orientare la gestione dell’impresa, reinterpretati e rivisti alla luce della liceità dell’attività di direzione e coordinamento a cui è soggetta, proprio in quanto i poteri di amministrazione e gestione non risiedono più solo nel suo organo amministrativo ma ancor prima (e forse prevalentemente) nell’organo amministrativo della capogruppo.
Un’importantissima rivoluzione culturale, questa, iniziata nel 2004 ma non ancora conclusa, che necessita di ulteriori sforzi interpretativi ed applicativi per raggiungere l’obiettivo più alto del “buon governo dell’impresa”.