“Nel 2006 ha visto la luce uno strumento giuridico in grado di agevolare il passaggio generazionale delle imprese per garantire continuità operativa: il patto di famiglia”
Ne analizziamo i profili tributari
Il virtuoso percorso, intrapreso dal Legislatore, per adeguare l’impianto normativo al mutato contesto economico in cui opera il nostro primario (e vitale) tessuto produttivo ed imprenditoriale principalmente costituito, com’è noto, da piccole e medie imprese soprattutto a carattere familiare ha visto il suo più recente e massimo sforzo con l’emanazione della riforma della crisi d’impresa (D.Lgs. 14/2019).
Ben prima di tale poderosa iniziativa, ma comunque animato dallo stesso (nobile) intento di evitare la disgregazione del patrimonio aziendale, oggi più che mai inteso quale bene sociale, è nato un importante strumento giuridico: il patto di famiglia.
L’esperienza ha infatti insegnato che il decesso o il ritiro dell’imprenditore e fondatore dell’impresa e la conseguente divisione del suo intero patrimonio tra i legittimari (ossia gli eredi a cui la legge riserva e garantisce una quota dell’intero patrimonio del de cuius) è stato spesso causa di dissoluzione dell’impianto imprenditoriale faticosamente “edificato”, con l’inevitabile dispersione del valore economico dell’azienda e, conseguentemente, della produttività e dei livelli occupazionali.
La frammentazione del controllo dell’impresa tra diversi membri di una famiglia, non dotati delle competenze necessarie o non interessati alla sua prosecuzione ovvero ancora animati da forti dissidi interni, è risultato quindi essere una delle cause principali di disgregazione del prezioso patrimonio imprenditoriale, da intendersi nella sua accezione più ampia.
In tale contesto si inserisce quindi il contratto citato, disciplinato dagli artt. 768 bis, 768 octies del Codice Civile che, tuttavia, non ha ottenuto l’ambita applicazione a causa di alcuni limiti normativi ed, in particolare, all’assenza di una specifica regolamentazione tributaria a cui purtroppo il Legislatore ci ha spesso abituati la cui individuazione, nei primi anni di vita dello strumento, è stata gioco forza affidata alla dottrina, all’amministrazione finanziaria e alla scarna giurisprudenza di merito.
L’intenso dibattito di questi anni ha riguardato principalmente la qualificazione civilistica dell’istituto, che agevolasse l’individuazione di un corretto trattamento fiscale, oggi senz’altro meno incerto, sia sotto il profilo delle imposte dirette, ossia quelle che colpiscono i guadagni realizzati da una persona, fisica o giuridica, o i loro patrimoni (quali, a titolo esemplificativo, l’Irpef, l’Ires, l’Irap e l’Imu,) che di quelle indirette, ossia che colpiscono i consumi, i trasferimenti e gli scambi (l’Iva, l’imposta di registro, l’imposta sulle successioni e donazioni, le imposte ipotecarie e catastali..).
Con riferimento alle imposte dirette ma anche per quelle indirette, come vedremo occorre preliminarmente distinguere la prima fase del patto di famiglia, ossia l’assegnazione (o meglio, donazione) dell’azienda (o parte di essa) ovvero delle partecipazioni, al soggetto legittimario individuato dal disponente, dalla seconda fase, ossia le compensazioni che la legge riconosce ai legittimari non assegnatari, salvo loro espressa rinuncia.
Nella prima fase, il trasferimento di azienda per causa di morte o per atto gratuito non costituisce realizzo di plusvalenze dell’azienda stessa e l’azienda è assunta ai medesimi valori fiscalmente riconosciuti nei confronti del dante causa, così come previsto al comma 1 dell’articolo 58 del T.U.I.R. (D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917).
In altre parole, il trasferimento dell’azienda all’interno del patto di famiglia, non genera alcuna plusvalenza.
Qualora oggetto del trasferimento fossero partecipazioni, anche tale fattispecie non integrerebbe alcun presupposto impositivo, né in capo al disponente, né all’assegnatario.
Una plusvalenza latente emergerà solo al momento di un’eventuale successiva cessione a titolo oneroso da parte del legittimario assegnatario, così come previsto dall’art. 68, comma 6, del TUIR, che regola altresì i criteri di determinazione di detta plusvalenza, avuto riguardo alla natura delle partecipazioni, se qualificate o meno.
Con riferimento all’imposizione indiretta, il trasferimento dell’azienda dal disponente all’assegnatario, non rientra nell’ambito di applicazione dell’Iva, come previsto dall’art. 2, comma 3, lettera b del D.P.R. 633/1972 secondo cui “non sono considerate cessione di beni quelle che hanno per og- getto aziende o rami di azienda.
L’esperienza ha insegnato che la divisione del patrimonio tra i legittimari dell’imprenditore e fondatore dell’impresa, è stato spesso causa di dispersione del valore economico dell’azienda, della produttività e dei livelli occupazionali.
Ed anche nell’ipotesi in cui oggetto del trasferimento fossero delle partecipazioni, sarebbe qualificato come atto a titolo gratuito, in virtù di quanto previsto dall’art. 2, comma 2, n. 4 del citato Decreto ma, esente dal tributo, secondo quanto previsto dal successivo art. 10, comma 1, n. 4.
La recente dottrina e la giurisprudenza di legittimità sono oggi concordi nel ritenere che ai trasferimenti previsti dal patto di famiglia, e ai relativi e collegati atti, deve essere applicata l’imposta sulle donazioni, fatte salve le cause di esclusione dalla citata imposta previste dall’art. 3, comma 4 ter del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni qualora gli assegnatari si impegnino a continuare l’esercizio dell’impresa per almeno un quinquennio dalla stipula del patto ovvero, con riferimento alle partecipazioni sociali, nell’ipotesi in cui il loro trasferimento possa acquisire od integrare il controllo (ai sensi dell’art. 2359 c.c.) delle società di cui all’art. 73, comma 1, lettera a) del T.U.I.R..
Con tali previsioni di favore, il Legislatore ha voluto dunque premiare la continuità aziendale ed, al contempo, evitare un uso strumentale ed abusivo (e, quindi, elusivo) dello strumento in questione.
Se, da un lato, gli effetti fiscali indiretti degli atti posti in essere tra disponente ed assegnatario hanno trovato immediata regolamentazione, lo stesso tuttavia non può dirsi delle compensazioni che l’assegnatario è obbligato ad effettuare, liquidando gli altri legittimari non assegnatari.
Sul punto è intervenuta lapidaria la Suprema Corte che, con Ordinanza n. 32823 del 19/12/2018, ha ribadito l’applicazione dell’imposta sulle donazioni (salve le esenzioni di cui al citato art. 3, comma 4 ter del D.lgs. n. 346 del 31 ottobre 1990) sia per i trasferimenti d’azienda o delle partecipazioni sociali dal disponente al discendente, sia per le compensazioni che quest’ultimo è tenuto a liquidare in favore dei legittimari non assegnatari, ma avuto riguardo non al grado di parentela tra disponente ed assegnatario, bensì tra quest’ultimo ed i legittimari non assegnatari e secondo le aliquote previste dall’art. 2, comma 48, del D.L. 262/2006. In particolare:
- a) a favore del coniuge e dei parenti in linea retta sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficiario, 1.000.000 di euro: 4 %;
a-bis) a favore dei fratelli e delle sorelle sul valore complessivo netto eccedente, per ciascun beneficia- rio, 100.000 euro: 6 %;
2. b) a favore degli altri parenti fino al quarto grado e degli affini in linea retta, nonché degli affini in linea collaterale fino al terzo grado: 6 %;
3. c) a favore di altri soggetti: 8 %.
La richiamata sentenza è stata oggetto di forti critiche da parte della dottrina che ha rilevato, in primis, come l’assegnatario agisca non per la volontà di donare, bensì in ossequio ad uno specifico obbligo assunto proprio con il patto di famiglia.
Ricondurre più ragionevolmente quindi l’obbligo compensativo in capo al disponente anziché, come visto, oggi obbligo dell’assegnatario consentirebbe di ovviare alle difficoltà che, un figlio o un nipote, potrebbero incontrare nel reperire la disponibilità delle risorse necessarie ad assolvere l’obbligo compensativo ed, al contempo, consentire l’applicazione di una normativa fiscale più favorevole.
In ragione della scarsa applicazione che sino ad oggi ha ricevuto lo strumento giuridico in esame, in forza dei limiti anzidetti, si auspica che il Legislatore apporti i correttivi necessari a consentire il raggiungimento degli obiettivi che ne hanno ispirato la genesi, essenzialmente volti a preservare e premiare la continuità aziendale a beneficio dell’intero sistema economico e che, oggi più che mai, dovrebbero trovare il favore ed il sostegno dell’imprenditoria più lungimirante.
La recente dottrina e la giurisprudenza
di legittimità sono oggi concordi nel ritenere che ai trasferimenti previsti dal patto di famiglia, e ai relativi e collegati atti, deve essere applicata l’imposta sulle donazioni.