Articolo a cura del Dott. Emanuele D’Innella e della Dott.ssa Francesca Tripodi
Finalmente ci siamo: dopo pronunce altalenanti di questi ultimi mesi, che non poche difficoltà interpretative avevano creato ad imprenditori e consulenti, la Corte di Cassazione torna a fare chiarezza sul tema dei rapporti tra la procedura concordataria e la disciplina dei reati tributari. E lo fa con la recentissima sentenza n. 13628 del 20 febbraio corso, pubblicata il 5 maggio.
Il tema, più generale, è quello del reato di omesso versamento delle ritenute certificate, di cui all’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000, e la sua configurabilità nei casi di proposizione di una domanda di concordato, della sua ammissione e dell’omologazione.
La questione non è certo di poco conto, dal momento che – giova ricordarlo – il reato di omesso versamento delle ritenute certificate per l’imprenditore che non versi le ritenute dovute (entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta) per un ammontare superiore a 150.000 euro per ciascun periodo d’imposta, è punito con la reclusione da sei mesi e fino a due anni.
Sullo sfondo, la vicenda di un imprenditore di Lecco che, depositato il 28.8.2018 il ricorso per l’ammissione alla procedura concordataria presso il Tribunale di competenza ed ancora in pendenza dei termini per la presentazione del piano concordatario (concordato con riserva), omette il versamento di ritenute previdenziali dell’anno 2017 per oltre un milione di euro in scadenza il 31.10.2018 e poi sino al termine ultimo del 31.12.2018, proprio sul presupposto dell’intervenuto deposito della domanda; da questo, la contestazione penale ai sensi del citato art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000.
L’imprenditore si difende dalla contestazione penale invocando l’inibizione dell’esercizio dei poteri di amministrazione ai sensi dell’art. 167 L.F. : “Durante la procedura di concordato, il debitore conserva l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa, sotto la vigilanza del commissario giudiziale”, sostenendo dunque l’inefficacia di ogni disposizione di pagamento nell’arco di tempo che va dalla presentazione della domanda (nella fattispecie in esame) di concordato in “bianco”, senza piano concordatario, sino al decreto di ammissione.
La Pubblica Accusa rileva invece come tale limitazione dei poteri dell’amministratore di una società, che abbia fatto riscorso alla procedura concordataria , sia operativa soltanto nel caso in cui la domanda sia corredata del piano, e non anche nel caso in cui – come quello in contestazione – si tratti di concordato c.d. “in bianco” ; in tal caso dunque, precisa il PM , nessun effetto inibitorio sul pagamento dei debiti in scadenza originerebbe dalla semplice presentazione della domanda con riserva.
All’origine del contenzioso, dunque, una accesa diatriba tra accusa e difesa relativa all’esercizio dei poteri da parte dell’imprenditore che abbia presentato una domanda di concordato con riserva (ai sensi e per gli effetti della L. 134/2012), che, tuttavia, la Corte di Cassazione lascia sullo sfondo, approfittandone poi, come già anticipato, per fornire indicazioni interpretative sulla ben più ampia vicenda dei rapporti tra diritto penale e procedura concordataria.
Ed infatti la Suprema Corte, rispondendo in prima battuta al quesito posto, chiarisce che sul tema specifico dei poteri alcuna rilevanza assume la natura del concordato (sia esso con riserva o meno), dal momento che “la procedura di concordato preventivo, a differenza della procedura fallimentare, non priva l’imprenditore in crisi dell’amministrazione dei beni, ma gli consente il compimento di alcuni atti gestori, situazione che viene comunemente indicata come “spossessamento attenuato“; nel caso di specie, dunque, come già rilevato dal PM, l’imprenditore conserva l’amministrazione del patrimonio e la gestione dell’impresa potendo compiere tutti gli atti di ordinaria amministrazione e condizionando invece quelli di natura straordinaria all’autorizzazione del Tribunale fallimentare.
Pertanto – è questa la prima conclusione della Corte – eventuali atti gestori di natura ordinaria compiuti dall’imprenditore non sono automaticamente inefficaci.
Partendo dunque da questa chiara premessa, la sentenza passa poi ad esaminare, più nello specifico, la natura del pagamento (omesso) dei contributi previdenziali, precisando che “il pagamento del debito fiscale, che, in condizioni ordinarie, costituisce un atto di ordinaria amministrazione, si qualifica quale atto di straordinaria amministrazione nel caso in cui il debitore sia ammesso ad una procedura di concordato preventivo, secondo la distinzione operata tra atto di ordinaria o di straordinaria amministrazione che resta incentrata sulla sua idoneità a pregiudicare i valori dell’attivo compromettendone la capacità di soddisfare le ragioni dei creditori, tenuto conto esclusivamente dell’interesse di questi ultimi e non dell’imprenditore insolvente“.
Principio, questo, non nuovo in giurisprudenza, in quanto già oggetto di una specifica pronuncia della medesima Corte di un anno fa (sent. 29 maggio 2019 n. 141713): il parametro essenziale per distinguere l’atto di ordinaria amministrazione da quello di straordinaria amministrazione è la conseguenza che lo stesso provoca sul patrimonio dell’impresa. Precisamente, tutti gli atti di “comune gestione” e quelli che – ancorché comportanti una spesa – migliorino o siano funzionali a conservare il patrimonio dell’impresa sono qualificabili di ordinaria amministrazione; al contrario, ricadono nei confini della straordinarietà gli atti che riducano il patrimonio o lo gravino di pesi o vincoli cui non corrispondano acquisizioni di utilità.
In altre parole:
- nel corso della procedura di concordato preventivo l’imprenditore conserva la gestione dell’impresa e può quindi porre in essere atti di ordinaria amministrazione della stessa, i quali atti non debbono, però, essere in condizione di pregiudicare gli interessi della massa dei creditori;
- ai sensi dell’art. 167, gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione devono essere autorizzati, pena l’inefficacia, intendendosi come tali tutti quegli atti potenzialmente in grado di incidere negativamente sugli interessi della massa creditoria. E questo a prescindere che l’imprenditore abbia fatto ricorso ad un concordato “ordinario” o ad un concordato “in bianco”.
Dunque atti astrattamente qualificabili come di ordinaria amministrazione se compiuti nel normale esercizio di una impresa possono, invece, assumere un diverso connotato se compiuti dopo la presentazione di una domanda di concordato, poiché, ove abbiano a investire interessi del ceto creditorio o incidere negativamente sulla procedura, quegli atti possono risultare idonei a sottrarre risorse, ovvero a pregiudicare la consistenza del patrimonio, compromettendo la capacità residua di soddisfacimento delle ragioni dei creditori.
Per tale ragione il pagamento di debiti tributari ingenti – nella sentenza di maggio trattavasi, come chiarito, di ritenute previdenziali per oltre 1 milione di euro – deve essere qualificato come atto di straordinaria amministrazione e quindi assoggettato ad autorizzazione del Tribunale.
Chiarisce infatti testualmente la Corte che ”la mera presentazione della domanda di ammissione al concordato preventivo, anche con riserva, non impedisce il pagamento dei debiti tributari che vengano a scadere successivamente alla sua presentazione e, pertanto, la stessa domanda non assume rilievo, né sul piano dell’elemento soggettivo, né su quello dell’ esigibilità della condotta, salvo che, in data antecedente alla scadenza del debito, sia intervenuto un provvedimento del tribunale che abbia vietato il pagamento di crediti anteriori”. Solo in quest’ultimo caso sarà dunque «configurabile la scriminante dell’adempimento di un dovere imposto da un ordine legittimo dell’autorità di cui all’art. 51 cod. pen., derivante da norme poste a tutela di interessi aventi anche rilievo pubblicistico, equivalenti a quelli di carattere tributario».
In altre parole, l’aver presentato una domanda di concordato (ordinario o con riserva) in attesa di omologa non esime dal pagamento dei contributi in scadenza l’imprenditore che, in quanto atto di straordinaria amministrazione, dovrebbe comunque attivarsi per la richiesta di autorizzazione al Tribunale e, una volta ottenuta, tranquillamente procedere al pagamento, senza alcuna violazione della par condicio creditorum e senza, ovviamente, incorrere nella contestazione penale di omesso versamento.
Diversamente, nel caso in cui il Tribunale dovesse negare la possibilità di procedere al pagamento, automaticamente si verrebbe a configurare per l’imprenditore una legittima causa di esclusione della punibilità ai sensi dell’art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000, in quanto tale omissione scaturirebbe proprio da un ordine legittimo dell’autorità (e come tale preordinato ai sensi dell’ art. 51 c.p.). Ed è lecito ritenere che tale sarà il comportamento del Tribunale a fronte della ricezione di una istanza motivata dell’imprenditore che abbia fatto accesso alla procedura concordataria: Considerato che il Tribunale deve infatti tener conto delle prospettive di soddisfacimento dell’intero ceto creditorio, certamente non autorizzerà il pagamento, configurando così l’esimente di cui all’art. 51 codice penale: “ L’esercizio di un diritto) o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità “ e facendo così decadere l’applicabilità della norma penale.
Chiara dunque la posizione della Cassazione sul punto, in netto contrasto con gli orientamenti di quella parte minoritaria della giurisprudenza di legittimità che, ancorché in epoca molto recente avevano espresso un differente principio secondo cui l’ammissione del debitore alla procedura concordataria di fatto costituisse una “sanatoria” per quelle condotte omissive pregresse in termini di omessi pagamenti. Una per tutte la sentenza della terza sezione civile n. 36320 depositata il 22.9.2019: «una volta intervenuto il provvedimento di ammissione del debitore al concordato anche le pregresse condotte omissive, consistenti in omessi pagamenti di obbligazioni giunte a maturazione nell’intervallo fra la presentazione della istanza e la sua positiva evasione da parte dell’organo giurisdizionale a ciò preposto, cessano, laddove mai in precedenza esse la avessero avuta, di avere rilevanza penale, atteso che tali condotte neppure possono essere considerate compiute contra ius in quanto legittimate, a tutto voler concedere a posteriori, dall’avvenuta ammissione alla procedura concorsuale».
Il principio sancito dalla sentenza di maggio è invece il seguente: ” la causa di giustificazione dell’art. 51 cod. pen., può essere invocata (soltanto, ndr) laddove l’imputato sia destinatario di un “ordine legittimo” del tribunale civile con cui gli impone il divieto di pagamento dei crediti anteriori alla proposta di concordato, o di una mancata autorizzazione al pagamento degli stessi, non potendo la stessa essere individuata nel provvedimento di ammissione (ai sensi dell’art. 163 legge fall.), nei confronti del debito scaduto nelle more tra la presentazione del ricorso con riserva e la sua ammissione, essendo tale situazione equiparabile, quanto alla possibilità del compimento di atti di straordinaria amministrazione, a quella di concordato con piano, e non potendo sul versante del piano penale, accordarsi valore di scriminante all’ammissione al concordato il rispetto ad una condotta di reato già perfezionatasi “.
In conclusione la presentazione di una domanda di concordato, sia essa con riserva o già completa del piano concordatario, non appare – a parere della Corte di Cassazione – sufficiente ad esimere l’imprenditore dal pagamento delle ritenute previdenziali in scadenza prima dell’omologa del concordato medesimo, dovendo lo stesso presentare, in tali circostanze ed al fine di non incorrere nelle sezioni penali previste in tema di omesso versamento, istanza di autorizzazione al Tribunale competente ed ottenere il provvedimento di divieto del pagamento (ex art. 51 c.p.).
Del resto, diversamente opinando, si dovrebbe concludere che il soggetto responsabile, con la mera presentazione della domanda di concordato prima della scadenza del termine per il versamento Iva o ritenute rilevanti a fini penali, possa evitare di incorrere in responsabilità penale.
La consumazione della fattispecie delittuosa è dunque esclusa solo in presenza della scriminante di cui all’art. 51 c.p.. che per l’appunto esclude il reato in quanto la condotta realizzata è considerata legittima da parte dello Stato ed il provvedimento deriva da norme poste a tutela di interessi aventi anche rilievo pubblicistico.
Resta ora da chiedersi quale rapporto vi sia tra la sentenza della Cassazione di maggio sin qui esaminata e quella di settembre 2019 (n. 39310/2019 depositata il 25.09.2019, ultima tra molte altre) che, sempre in merito agli omessi versamenti di cui agli articoli 10 bis e 10 ter del D.Lgs. 74/2000, ha chiamato in causa il principio di forza maggiore ex art. 45 c.p., cioè quell’evento imprevisto e imprevedibile, non collegabile ad un’omissione volontaria dell’agente, il cui verificarsi rende assolutamente impossibile per l’agente porre in essere il comportamento omesso.
Il nostro ragionamento non può che partire dalla constatazione che i reati tributari di cui stiamo discutendo sono reati propri (l’agente, infatti, può essere solo il soggetto obbligato) di natura omissiva, e come tali puniti a titolo di dolo generico, che consiste – come noto – nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute nel momento in cui matura il tempo dell’obbligazione tributaria; ne consegue che, per la consumazione del reato di natura tributaria, non rileva la specifica intenzione di evadere l’imposta, essendo invece sufficiente che il soggetto obbligato ometta volontariamente il versamento dell’imposta dovuta nella consapevolezza della sussistenza dell’obbligo e della inutile scadenza del termine previsto per il pagamento.
Con questa dovuta premessa, ci si chiede dunque se, l’imprenditore che, fatto ricorso alla procedura concordataria, non abbia provveduto a formalizzare al Tribunale fallimentare l’istanza di autorizzazione per i pagamenti tributari in scadenza – come prescritto dalla Cassazione – e che per tale ragione si trovi davanti ad una contestazione penale per omesso versamento (di IVA o ritenute), possa comunque invocare l’impossibilità di procedere al pagamento al fine di configurare l’esimente di forza maggiore.
La posizione della Cassazione sopra citata è chiara sul punto: “per la configurazione dell’esimente della forza maggiore rispetto al reato di cui all’art. 10 ter d.lgs. 74/2000, risulta indispensabile che il contribuente dimostri che gli sia stato impossibile reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie all’adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo esperito tutte le possibili azioni, comprese quelle svantaggiose per il proprio patrimonio personale, tese a recuperare le somme necessarie a estinguere il debito erariale, senza esservi riuscito per ragioni a lui non imputabili e, comunque, indipendenti dalla sua volontà”.
Principio questo assolutamente condivisibile e, a parere di chi scrive, sempre valido in presenza di una contestazione di penale (anche di natura tributaria), a prescindere dalla presenza – o meno – di una procedura concorsuale.